Le stanze che aveva preso all’ultimo piano della locanda non erano certo il massimo del lusso, anzi, erano spoglie e spartane, ma andava bene così. Aveva l’intero piano per sé, e se anche delle sei stanze che lo componevano, tre rimanevano completamente vuote per mesi, l’oste non aveva proprio nulla da dire. Aveva pagato in anticipo per poco meno di un intero anno, e sebbene se ne fossero stupiti, i padroni della locanda non avevano battuto ciglio.
L’avevano guardata con circospezione, ma non appena si erano accorti che passava la maggior parte del suo tempo chiusa in una delle sue stanze, con un sottile filo di luce che passava dalla porta e nel silenzio più assoluto, si erano convinti che non poteva essere una persona che avrebbe causato guai alla loro locanda, sebbene il suo aspetto facesse pensare più ad una guerriera che ad una studiosa.
L’ostessa l’aveva presa in tale simpatia che le portava quasi sempre cena e pranzo in camera, quando non era lei stessa a dirle di fare diversamente. La donna saliva le scale nel buio, tanto conosceva bene la sua locanda; si fermava davanti alla porta da cui vedeva uscire il solito filo di luce, posava il vassoio a terra e augurando un buon pasto alla sua ospite tornava di sotto.
Anche nel piccolo paese s’erano abituati a vederla camminare per le piccole strade, ma lei usciva di rado; era capace di rivolgere un gentile sorriso a tutti quelli che incontrava, e la volta dopo di non guardare in faccia nessuno. Sembrava non aver bisogno di niente di tutto ciò che serve abitualmente ad una donna, o ad un uomo, perché non era mai entrata in nessuna delle botteghe del piccolo borgo, ed i suoi abiti non erano mai sgualciti o rovinati.
Forse anche per questo s’era diffusa la diceria che praticasse le arti magiche, ed in fondo era vero; la maggior parte del tempo la passava china sui libri che poco alla volta si era procurata, leggendo ed imparando fino alla più minuta annotazione, nel buio e nel silenzio della sua stanza.
Non era mai stata dotata di grandi poteri, almeno non prima che sangue Ahaghen prendesse a scorrere nelle sue vene, e che lei decidesse di rinnegare la sua vera identità, quella di Custode delle Notti, una delle elette che partecipava al dono.
In fondo, però, non poteva rinnegare quella parte di sé, perché ancora, nelle notti di Luna, sentiva i richiami e le invocazioni di esseri che soffrivano, che fossero uomini, piante o animali. Anche immersa nello studio di nuove formule, di nuovi incantesimi, quelle deboli voci s’insinuavano con prepotenza oltre le barriere che lei aveva imparato ad innalzare, e quasi contro la sua stessa volontà, la costringevano a lasciare il libro aperto e uscire, saltando sui tetti e correndo per i campi.
C’era, in quel suo rifiuto, qualche cosa di più del semplice scorre del sangue Ahaghen nelle sue vene; c’era, emergente dal suo passato, il terrore quasi folle di sentire, presto o tardi, il chiaro tocco, il limpido richiamo, di un malinconico dolore che conosceva fin troppo bene e aveva voluto dimenticare. Avrebbe potuto farlo, se una sofferenza quasi identica non la cogliesse, di tanto in tanto, lasciandola sfinita, esausta e moralmente dolorante sul suo pagliericcio.
Non c’era nulla che lei potesse fare per combattere quella strana sofferenza che era soprattutto mentale, ma che sapeva anche diventare fisica. Non c’era nulla che lei potesse fare da sola, nemmeno le severe pratiche di mortificazione fisica che aveva appreso quando era vissuta all’Abbazia, quando era la Custode, servivano più a nulla.
Poteva sembrare, in apparenza, che conducesse davvero una vita tranquilla, comune a quella di molti cultori di magia, perché nessuno la vedeva scivolare silenziosa, rabbiosa, al soccorso di chi inconsciamente chiedeva il suo aiuto e la sua protezione. Imprecava e smaniava per tutta la strada, ma raggiunto l’essere che aveva invocato aiuto alla pallida luce dei raggi lunari, la rabbia defluiva dal suo essere, e per quei brevi momenti, la vecchia immagine della Custode tornava a rivestire la sua figura.
E nessuno, ancora, poteva immaginare che i giorni di novilunio, i giorni che lei in passato chiamava della Luna Nera, lei scivolasse silenziosa per il borgo, e che proseguisse spedita nei campi, nei boschetti, dove si liberava del mantello, delle vesti, ed attendeva che il cambiamento, dovuto al sangue demoniaco, che scorreva in lei, la tramutasse in una grossa pantera dal pelo lucido e soffice e dagli occhi riverberanti che solo i predatori possiedono.
Questo era tutto ciò che accadeva dentro e fuori le spoglie stanze che Loralis di Sansaron occupava alla locanda dei Venti.
Avevano imparato a conoscerla, e le fanciulle più giovani di lei ammiravano la libertà e la fermezza che lei dimostrava anche nel più comune dei gesti, le donne maritate invidiavano la sua posizione d’indipendenza, e gli uomini non facevano mistero di trovarla attraente anche se lei aveva abbandonato l’informe, seppur femminile, abito della Custode, preferendo una corta tunica e delle semplici brache, a cui s’aggiungeva una piccola balestra che lei portava sempre appesa in cintura.
La piccola arma aveva dato da fantasticare a molti, poiché nessuno conosceva il passato di lei, e parecchi si chiedevano da cosa avrebbe dovuto difenderla il piccolo dardo sempre incoccato. Solo le anziane signore del paese la guardavano e scuotevano tristemente il capo, intuendo che nella luminescenza di quegli occhi quasi sempre accesi di una strana nostalgia, si nascondesse qualcosa di più che la semplice e altezzosa determinazione che mostrava il resto della sua fisionomia.
I capelli, che un tempo aveva portato molto lunghi, ora erano stati recisi da un colpo di forbici appena sotto le orecchie, e ricadevano scomposti sugli occhi e sul volto, arricciandosi appena, così scuri da riverberare di una luminescenza bluastra sotto le luci della taverna.

Come tutte le sere, Loralis sedeva al suo tavolo, chiusa in una delle stanze che fungeva da laboratorio, con un lume acceso e un libro aperto davanti. Avvertì i passi sulle scale, dicendosi che era troppo presto per la cena, e che il passo era troppo spedito per qualcuno che porta un vassoio. Con uno sguardo contrariato si volse verso la porta e prima che l’oste avesse tempo di bussare lei gli disse: - Avanti! E spicciati…
L’uomo accennò un sorriso. Era abituato ai modi bruschi di lei, e sebbene sapesse che non avrebbe esitato a malmenare chi la importunava, era certo che non avrebbe alzato un dito su di lui. - Buona sera, mia signora…- disse allora con aria umile.
- Ti ho già detto di non chiamarmi in quel modo!- sibilò lei a labbra serrate.
- Chiedo scusa…madonna.- fece allora l’oste.
Quel titolo era più ridicolo, certo, ma almeno non era affatto legato al suo passato, e questo le importava soprattutto.
- Avanti, cosa c’è!- l’incalzò.
- Ecco…ci sarebbero due viandanti, e la locanda è al completo…- azzardò.
Loralis finse di non afferrare la sfumatura. - E come potrebbe riguardarmi tutto questo?
- Se fossi disposta a cedere una delle stanze…
- Mi pare di averti dato più che a sufficienza, oste, perché tu non mi chieda nulla!
- Madonna, sono due giovani appartenenti agli Ordini…
Lei sbuffò esasperata, c’era un solo modo per toglierselo presto di torno. - La stanza in fondo al pianerottolo. E bada che non tocchino nulla, che non ho voglia di gettare un incantesimo…
- Grazie madonna, quei due ti saranno molto grati.
Lei gli rivolse uno sguardo ironico e malizioso. - E tu no, oste? Che avrai denaro per il doppio?- domandò allora lei in tono pungente.
L’uomo arrossì, ma in fondo era una persona onesta. - Ti porterò parte del tuo denaro.- asserì allora, anche se con certo malincuore.     [ avanti » ]

di Nadja