Nel sole di un pomeriggio appena iniziato, Alfredo Stratta parcheggiò l’auto nel piazzale del centro trasfusionale, dopo aver percorso dieci chilometri di provinciale senza problemi di traffico.
Giunto di fronte all’ingresso si fermò ed estrasse di tasca il cellulare. Pescando tra i nomi in rubrica selezionò COSTA, un venditore di caldaie di primaria marca tedesca. Care come il fuoco, ma con una buona considerazione tra i progettisti di impianti di riscaldamento, forse perché non sono loro a doverle acquistare.
Pigiò il tasto di chiamata e attese che Costa rispondesse. Rispose, quasi subito.
“Prontooo?” con la vocale finale innalzata di un’ottava, da brillante venditore capo filiale.
“Buongiorno, signor Costa. Sono Alfredo Stratta.”
Un secondo di silenzio, due secondi di silenzio, tre secondi di... “Ci siamo incontrati lunedì, per il colloquio” specificò Alfredo Stratta più sconsolato che seccato. Lunedì era passato da due giorni, erano stati chiusi in un ufficio per tre ore e mezza a cianciare di prospettive di lavoro e di andamento del mercato, e quello, dopo due giorni, non ricordava nemmeno il suo nome. Regolare, da non valere il fastidio di un’incazzatura.
“Ah, sì. Per il colloquio” rispose Costa.
Ecco, bravo, pensò Alfredo Stratta.
“Bene. Cosa mi dice?” gorgheggiò Costa, nel tono leggero che tradotto in concetto suona come che tu mi dica sì o che tu mi dica no, a me la vita non cambia neanche un po’. Alfredo Stratta alzò lo sguardo verso la punta di uno dei pini che ornavano il parcheggio.
“Le dico che ci ho pensato sopra. Ne ho parlato anche con mia moglie” disse Alfredo Stratta. Mentre parlava si rendeva perfettamente conto che esordire in un discorso di lavoro tirando in ballo la moglie equivaleva a girare intorno ad un no senza replica. “E ho deciso di rinunciare alla sua offerta” concluse. Immaginò in quel momento la faccia di Costa assumere un'espressione da come volevasi dimostrare.
“Non conosco le motivazioni che l’hanno portata a decidere in tal senso” rispose Costa per nulla sorpreso, “e mi piacerebbe parlarne a quattr’occhi, tuttavia ho una chiamata sulla seconda linea e devo lasciarla. Buone cose, signor...”, ma il cognome non venne. Già dimenticato, di nuovo. In compenso Costa riattaccò e Alfredo Stratta si trovò a dire buongiorno al vento.
Poco male, pensò Stratta rinfilando il cellulare in tasca. Salì i tre gradini che lo separavano dall’ingresso del centro trasfusionale, spinse il maniglione della porta a vetri ed entrò. Rischiare la vita sulle strade del Nord Italia per supplicare boriosi professionisti o imprenditori più ignoranti di un sasso affinché acquistassero le “innovative apparecchiature” che avrebbe dovuto commercializzare, non costituiva certo la via per il paradiso. Che si fottessero Costa e le caldaie tedesche! Ci sarebbero stati tempi ed occasioni migliori da afferrare. Ciò che andava cercando in quel momento era ben altro.
Conosceva quei locali molto bene, Alfredo Stratta. Era donatore di sangue da parecchi anni, praticamente da quando divenne maggiorenne. Due, tre volte all’anno capitava lì dentro, chiamato dal centro o di sua spontanea iniziativa. E donava i suoi 450 cc. di liquido. Sangue intero, solo plasma, solo piastrine, secondo le necessità e il tempo a disposizione. Quel giorno, tuttavia, più che per una donazione, Alfredo Stratta si trovava lì per un prelievo.
Giunto alla reception salutò la segretaria, porse la tessera da donatore e come al solito si vide consegnare una cartella di cartoncino plastificato ed un questionario da compilare. Domande sul proprio stato di salute negli ultimi 12 mesi: abitudini sessuali, assunzione eventuale di droghe, e via dicendo. Alfredo Stratta si avviò disinvolto verso i tavolini a disposizione dei donatori per la compilazione delle carte, ma una volta che la segretaria riabbassò lo sguardo, tagliò deciso verso i locali della conservazione sacche. Non appena appoggiò la mano sulla manopola della porta, una voce alle sue spalle lo gelò. “Lei è qui per una donazione?”
Alfredo Stratta si voltò lentamente, prima ruotando il collo, poi il dorso e in ultimo tutto il resto del corpo. Come ci fossero delle uova per terra, dietro le sue caviglie, e non volesse calpestarle per niente al mondo. Un medico in camice bianco, leggermente stempiato lo osservava con aria di sottinteso da dietro un paio di occhiali da miope, con la montatura di cellulosa viola. Dal taschino del camice faceva capolino una tenaglia da dentista.
Alfredo Stratta inspirò profondamente, andando a ripescare aria dalle profondità più recondite dei polmoni. Ripreso fiato sorrise obliquamente al medico. “Certo che sono qui per una donazione. Il fatto è che cercavo il bagno prima di... sa com’è, una volta piazzato sul lettino poi non ci si può più muovere, e così...”.
Il medico gli strappò via dalle mani la cartella e i fogli del questionario. “Deve ancora compilare tutto, qui” disse il medico con tono di rimprovero. “È vero, l’avrei fatto dopo aver sbrigato l’urgenza. Anzi, vado a sedermi e compilo subito tutto quanto” si affrettò a rispondere Alfredo Stratta.
“Non importa” lo fermò con decisione il medico. “Sono sempre le solite fregnacce, tanto ognuno scrive quello che vuole, che sia o meno la verità... mi segua in sala prelievi, piuttosto. Non ci vorrà molto, vedrà. Poi avrà tutto il tempo per pisciare fiumi, laghi e mari!”
Alfredo Stratta seguì esterrefatto il medico verso la sala prelievi. Si rese conto di non averlo mai visto prima; un tipo così sboccato se lo sarebbe ricordato bene. Non aveva mai visto neanche la centralinista, che ora lo osservava da dietro il bancone come si osserva un ladro colto sul fatto da un poliziotto. Da quella posizione Stratta scorse un piccolo cane di peluche appoggiato sulla scrivania del centralino, proprio di fianco al monitor. Dallo sfondo nero dello screensaver una goccia di sangue rosso si formava e si disperdeva subito dopo in una corona di mille gocce più piccole, reiteratamente, senza fine. Guardandosi attorno, Alfredo Stratta non vide altro donatore al di fuori di se stesso. Anche quello costituiva un fatto nuovo. Era un orario tranquillo, ma mai fino a quel punto. Le prime spie luminose cominciarono ad accendersi nella sua mente, ed erano tutte spie di allarme.
Entrarono nella sala prelievi, un locale suddiviso in lunghezza da armadietti bassi che limitavano cinque zone operative, in ognuna delle quali erano posizionati due lettini reclinabili rivestiti in skai color amaranto. Non c’era un solo lettino occupato. Un secondo medico, anch’egli in camice bianco, era intento a conversare al cellulare appoggiato al davanzale di una delle grandi vetrate. “Prego, di qua” disse il primo medico rivolgendosi a Stratta. Lo condusse nella zona della plasmaferesi. Di fianco ad ogni lettino si trovava un marchingegno delle dimensioni di una lavatrice di piccolo carico, sopra il quale era installato un intrico di tubicini e di sacche trasparenti. Alfredo Stratta sapeva molto bene di cosa si trattava. Erano le macchine che prelevavano il sangue intero, lo centrifugavano e ne trattenevano il plasma, reinfondendo la parte globulare nelle vene del donatore. Una roba da una quarantina di minuti. Se avessi avuto veramente bisogno del bagno sarebbero stati dolori, pensò Alfredo Stratta.
“Quale braccio preferisce?” si sentì chiedere Stratta. È lo stesso, stava per rispondere come sempre. Tuttavia quella volta esitò qualche attimo, pensando che non avrebbe dovuto dare troppe opportunità di scelta a quello strano tipo in camice bianco, per quanto dovesse essere medico dalla testa ai piedi. Lasciarsi andare alla corrente poteva condurre alle rapide in men che non si dica. “Facciamo il braccio destro” disse infine Alfredo Stratta. Si sedette sul lettino, dopo essersi tolto di dosso la giacca. Arrotolò la manica destra della camicia fino a che ebbe scoperto tutto l’avambraccio. Il primo medico gli si avvicinò tenendo tra le dita un batuffolo di cotone bagnato d’alcool. Stratta notò solo allora il cartellino apposto sul camice. Dr. Altavilla.
Altavilla frizionò, mentre Stratta serrava il pugno; quindi infilò l’ago nella vena gonfia. Il tubicino collegato al macchinario, da trasparente che era, divenne rosso scuro. Alfredo Stratta vide avvicinarsi anche l’altro medico, che nel frattempo aveva terminato la telefonata. Grosso di corporatura, quasi completamente calvo. Nel taschino del camice teneva una tenaglia da dentista che sporgeva per buona parte. Anche lui. Il cartellino plastificato diceva Dr. Falsacappa. Mentre osservava la figura del medico ingrandirsi nel procedere verso di lui, Alfredo Stratta cominciò a sentire brividi di freddo scivolargli fino alle estremità delle mani e dei piedi. L’apparecchiatura al suo fianco cominciò a ronzare, mentre la fascia attorno al suo braccio si gonfiava serrando il bicipite in una morsa senza scampo. Sul pannello di controllo si accese il led verde di fianco alla scritta PRELIEVO.
Tempo addietro, durante una seduta di prelievo, il circuito sterile collegato al donatore sdraiato al suo fianco scoppiò letteralmente. Alfredo Stratta fu inondato dal sangue dell’estraneo, la faccia completamente coperta di rosso. Prima che i medici accorressero a pulirlo e disinfettarlo diede una leccatina. Fu più forte di lui. Da quella volta prese corpo in lui il bisogno di compiere prelievi anziché sottoporvisi, ma solo negli ultimi tempi cominciava a credere che la cosa non costituisse una semplice coincidenza.
Falsacappa ed Altavilla si allontanarono dalla postazione, confabulando a bassa voce. Dopo cinque minuti Altavilla consegnò una pallina di gommapiuma a Stratta. “La schiacci ripetutamente, finiremo prima” gli disse. Alfredo Stratta prese a mungere come un forsennato. Finire era la sola cosa a cui veramente teneva. Finire, alzarsi e provare a completare ciò che era venuto a fare lì dentro. Oppure scappare lontano dai due camici bianchi, senza voltarsi indietro, e non farsi vedere mai più. Che si tenessero pure la sua tessera, che la bruciassero. Propositi che diventavano sogni lontani, a mano a mano che i minuti passavano. Il led verde di prelievo lo guardava come l’occhio della coscienza.
“Scusate!” urlò ad un tratto Alfredo Stratta. Altavilla e Falsacappa raggiunsero il suo lettino con passo calmo, per nulla preoccupati. “Qualcosa non va?” chiese Altavilla.
“Questo macinino non funziona! Sarà passato un quarto d’ora da quando ha iniziato a prelevare e ancora non è tornato indietro niente!”
“È una macchina nuova: fa un ciclo unico anziché tre come le altre. È tutto sotto controllo, stia tranquillo.” Così dicendo i due medici serrarono il braccio libero di Stratta al poggiolo del lettino. “E adesso che diavolo fate?” gridò quello, ma i due medici non si scomposero minimamente. Anzi, per tutta risposta, applicarono una fascia elastica al petto di Alfredo Stratta, tendendola con forza e fissandola sotto il pianale del lettino. Falsacappa afferrò il cavo elettrico collegato alla fascia e infilò la spina nella presa di corrente più vicina.
Alfredo Stratta non riuscì a proferire parola; era legato come una scimmia da esperimento a quel lettino, con millilitri di sangue che abbandonavano il suo corpo e due medici ormai sfacciatamente ostili a disporre della sua sorte. Dal freddo le mani gli divennero via via sempre più insensibili, tanto che la pallina di gommapiuma scivolò dal palmo della destra, rotolando in un angolo lontano della stanza. L’ago premeva sul muscolo, vibrando dentro una vena sempre più vuota. Alfredo Stratta se ne sentì in diritto e per quel poco che poteva servire lo fece: gridò aiuto, con tutta la forza residua, mentre la vista andava e veniva, come se qualcuno si stesse divertendo a manipolare lo zoom di un obiettivo fotografico.
Le grida d’aiuto fecero il giro di quei padiglioni inspiegabilmente deserti e gli ritornarono addosso, beffarda eco della disperazione, che ben presto non trovò più la forza di esistere. Le labbra di Alfredo Stratta si incollarono agli incisivi, prive di saliva, asciutte e tese. Che stupido che sono stato, penso di sé, in che modo stupido me ne sto andando.
Due sagome bianche indistinte gli si piazzarono ai lati e ciò che dissero giunse come un lontano brontolìo alle sue orecchie. “Ormai è vuoto” disse Altavilla al collega. “Vai con il cuore. Dài corrente.”
Falsacappa pigiò l’interruttore e la fascia elastica cominciò a scaldarsi. Le resistenze interne raggiunsero in meno di un minuto la temperatura di 120°C e un fumo acre e maleodorante si sviluppò dal torace di Alfredo Stratta. Il volto grigiastro del donatore si crepò come terracotta e i bulbi oculari presero a gonfiarsi, bianchi e sporgenti come uova di piccione. Fu un momento, ma durò a lungo. Alfredo Stratta ebbe ancora modo di sentire un TU-TUMP che si ripeté quattro volte. Era la prima volta che sentiva battere il suo cuore, quel pugno di ghiaccio che un demone tanti anni prima gli aveva messo in petto. Ecco com’è un cuore che batte, pensò nel delirio. Poi un rumore sordo, un fiotto di sangue liberato che prese a scorrere verso la vena bucata, verso l’ago e il tubicino ad esso collegato, che si colorò di rosso cupo ancora per qualche secondo. Quindi le crepe sul corpo di Alfredo Stratta si fecero più profonde, scricchiolarono, si contrassero, si dilatarono, sembravano non sapere neanche loro cosa fare, fino a che quel guscio disidratato cristallizzò. Bastò un colpo di martelletto da parte di Altavilla perché si frantumasse nel silenzio più totale.
“Stacca tutto, anche questo l’abbiamo recuperato” disse Altavilla al collega.
“Non finiranno mai” si lamentò Altavilla smontando il kit di prelievo dalla macchina. “Con tutti i problemi che abbiamo per raccogliere sangue, siamo costretti a guardarci le spalle da questi vampiri bastardi che vengono qua a svuotarci le sacche. Cercava un bagno, il bastardo, eh? Be’, ora non ne ha più bisogno!”
Falsacappa riempì dieci sacche, spillando il sangue raccolto nel serbatoio di acciaio inossidabile posizionato nella parte bassa della macchina per l’aferesi. Le palpò una ad una, con una certa soddisfazione.
“Lasciane fuori un paio!” gli urlò Altavilla dal corridoio. “Voglio proprio controllare com’è!”
I due medici si sedettero al tavolo della saletta adibita alle visite preliminari, ognuno con la sua sacca gonfia di sangue appena spremuto. Altavilla estrasse dal taschino del camice la tenaglia ed estrasse con un colpo secco i finti canini superiori. Falsacappa lo imitò, eccitato. Quando i canini veri, retrattili e ben più lunghi ed appuntiti dei precedenti, vennero fuori dalle gengive, Alfredo Stratta era già un’anima nera alla ricerca di un nuovo corpo. Altavilla lanciò un’occhiata a Falsacappa; questi gli rispose con un ghigno storto che nessun uomo sano di mente avrebbe avuto voglia di vedere.
“Vogliono il sangue? Che si iscrivano a medicina!” ringhiò Altavilla al collega di fronte a lui, ricevendo un grugnito di approvazione.
Affondarono le zanne acuminate nelle rispettive sacche senza nemmeno augurarsi buon appetito.


Non dite DOMANI!
Per milioni di vampiri potrebbe non esistere un DOMANI!
Venite a donare un po’ del vostro sangue!
da un megafono montato sul tetto di un’auto


autore                                    
Paolo Tarabelloni