Oggi vorrei fare una cosa che non ho mai fatto in tutta la vita: vorrei parlare di me, raccontare la mia storia.
Tuttora però non riuscirei comunque a farlo guardando qualcuno negli occhi, così ho deciso di scrivere. Cercherò di far presto, perchè le mie vecchie mani artritiche non reggeranno molto senza trasformarsi in un insopportabile impasto di scheletrico dolore e per un altro motivo.
Dalla finestra, la luce della luna entra pallida e gelida in questa piccola stanza. È da poco passata la mezzanotte. È il primo gennaio 2004.
La candela sul comodino ondeggia lentamente nell’aria fredda della camera e timidamente illumina il quaderno sul quale sto scrivendo, ma questo non è un problema: gli occhi sono l’unico organo del mio corpo che ancora funzioni bene nonostante l’età.
Da fuori non proviene alcun rumore, la città dorme, e anch’io fra un po’ mi addormenterò. Per sempre.
Sto per morire. Lo so per certo. Lo sento dentro. Nelle ossa, in ogni muscolo, nel cuore, nella testa e... nell’anima. Non so se riuscirò ad ammirare l’alba di questa mattina.
Fra qualche giorno, un vicino, animato dal lezzo proveniente da questa stanza, si deciderà ad aprire la porta e troverà questo vecchio corpo, freddo, ormai in putrefazione, adagiato proprio come adesso, su questo letto.
Penso che metterò queste pagine in una busta sul comodino e sopra ci scriverò qualcosa come “memorie” o “diario”, qualcosa insomma che invogli a raccoglierla e a leggere queste parole.
Probabilmente nessuno crederà a ciò che sto per scrivere, ma non importa, il mio scopo non è quello di essere creduto, lo faccio solo per liberarmi dal peso di questa mia vita solitaria, ignota e incredibile. Spero solo di trovare un po’ di sollievo. Non so, forse ora che si avvicina la fine, la resa dei conti ho bisogno di sviscerare questo segreto che mi porto dentro da quando avevo 13 anni.
Non so come cominciare la storia, ma a pensarci bene non mi interessa che sia suggestiva, o come ho detto prima “credibile”, per cui mi limiterò ad elencare i semplici fatti accaduti.
C’è stato un inizio, come del resto c’è per ogni storia, ma tutto sommato non è determinante per la mia, scorrerò quindi velocemente quanto accaduto.
Nacqui a cavallo del nuovo secolo, precisamente l’otto febbraio 1900. Con mia madre e mia sorella Megan abitavo nella periferia di New Castle (la distinzione tra periferia e centro cittadino, allora non aveva molto senso: si parlava di città solamente per identificare la sede comunale, e di periferia per non volgarizzare le campagne). Avevamo un fazzoletto di terra del tutto rispettabile, quasi 12 acri, lasciatoci in eredità da mio padre che facevamo lavorare da una ventina di braccianti. Oltre a garantire un largo sostentamento, dava da mangiare ad una dozzina di famiglie per cui eravamo benvoluti da tutti.
Tutto andava bene sebbene la crisi di inizio secolo scoppiata in America cominciasse a farsi sentire anche in Europa. Mia madre soffriva non poco la mancanza di mio padre, ma aveva un sacco di persone al suo fianco che non le facevano mancare la compagnia; mia sorella ed io passammo un’infanzia serena finchè una sera di fine inverno del 1913 non sconvolse la nostra famiglia ma soprattutto il naturale equilibrio delle cose.
In quel periodo, tutta la campagna era in fermento per la festa delle fragole, che quell’anno a causa del clima particolarmente mite, era stata anticipata a metà marzo.
I festeggiamenti cominciavano nel pomeriggio e andavano avanti fino a tarda serata ed era una delle rare occasioni a cui anche noi ragazzini avevamo il diritto di partecipare.
Un paio d’ore dopo cena, mia sorella e io salutammo nostra madre e il capannello di persone sorridenti, per lo più alticce, che la accerchiava e ci incamminammo verso casa
Era una nottata piacevolmente fresca, accarezzata da una brezza leggera. La luna piena illuminava il paesaggio a intermittenza, nascondendosi dietro nuvoloni carichi di pioggia, per riapparire dopo poco, e disegnava inquietanti arabeschi fra i campi.
Camminammo in silenzio lungo la strada che portava a casa per più di un km e ancora si sentiva il chiasso della festa. Ci scambiammo un’occhiata e scoppiammo a ridere. Fu l’ultima volta che vidi il sorriso di mia sorella.
Confuso fra il rumore soffocato della festa e lo scalpiccio dei nostri passi sulla ghiaia, sentii qualcos’ altro che proveniva dal grano. Mia sorella sembrò non accorgersene. Non riuscii a capire in tempo di cosa si trattasse e questa leggerezza fu fatale.
Penso che tutto si sia svolto nell’arco di tempo di un minuto al massimo: sulla mia destra, le prime file di grano vennero scosse e due ombre ne uscirono (non riuscii a distinguere di cosa si trattasse perchè in quel momento la luna stava giocando a nascondino). Girai di scatto la testa ma prima di vedere qualcosa, la penombra si fece dorata in un’esplosione dolorosa di mille stelle luminose davanti ai miei occhi, poi il buio fu totale. Qualcuno mi aveva colpito con forza alla testa.
Rimasi svenuto per un attimo eterno. Da lontano sentivo grida soffocate, il buio pesava dentro la mia testa. I rumori lentamente e dolorosamente si fecero più nitidi ma il buio persisteva. Ad ogni respiro inalavo migliaia di aghi e li sentivo conficcarsi diritti nel cervello, ma fu proprio quel dolore a farmi ritornare nel mondo reale. Aveva cominciato a piovere lentamente.
Aprii gli occhi e dietro quel manto di luccicanti stelle si presentava la scena: erano due uomini, ombre nell’ombra, ed erano addosso a Megan, uno da dietro la immobilizzava e le tappava la bocca per soffocare le grida. L’altro era di fronte a lei. Subito non capii cosa stesse succedendo ma un attimo dopo intravidi i vestiti strappati abbandonati a terra e tutto mi fu chiaro. Come per conferma la luna fece capolino da dietro una nuvola e rischiarò con la sua luce piena tutto il paesaggio.
La stavano violentando. Erano ubriachi e ridevano.
Tentai di urlare ma la mia gola non emise alcun suono. Provai a rialzarmi, ma una fitta di dolore partì dalla nuca e si propagò con prepotenza lungo la spina dorsale bloccandomi le gambe e facendomi rovinare al suolo.
Uno dei due, rivolgendosi a me mandò una risata sguaiata e perfida. Riuscii a rialzarmi e mi avventai su di lui ma mi tenne a distanza con un potente calcio allo stomaco. Mi piegai in due dal dolore reggendomi la pancia fra le mani, con le prime lacrime che bruciavano gli occhi, e da sopra l’uomo mi diede il colpo di grazia, presumo con tutta la forza che avesse in corpo, calando i pugni uniti sulla schiena. Di nuovo stramazzai a terra ma stavolta non persi i sensi e fu proprio questo a scatenare la forza della natura. Finii disteso con la faccia a terra, paralizzata dal dolore, dall’impotenza, e ... dall’ odio.
Le lacrime mi rigavano le guance sporche lasciando solchi puliti al loro passaggio.
Megan ormai non emetteva più alcun suono, stava piangendo muta dal dolore, sussultando ad ogni aggressione.
Fu in quel preciso istante che tutto accadde. Non so spiegarlo con esattezza, tuttora a distanza di anni non ho ancora capito. Vidi un enorme, accecante luce provenire dall’alto. Tutto il paesaggio assunse la nitidezza del giorno. Gli altri sembrarono non accorgersi di nulla.
Guardai il cielo: quella luce abbagliante proveniva dalla luna che aveva rotto le nuvole. La luce mi avvolse, lasciandomi in uno stato di calmante torpore. La luce era palpabile, aveva assunto la consistenza di una carezza e mi cullava, guarendo velocemente le mie ferite. I muscoli e le ossa (che quasi certamente avevano qualcosa di rotto) riacquistarono vigore e forza, la sensibilità nelle gambe tornò a farsi sentire. La luce era più che mai abbacinante ma non riuscivo a distogliere lo sguardo e guidato da un nuova forza poderosa mi alzai in piedi.
Fisicamente stavo bene, anzi, mai come allora mi ero sentito così in forma, solo dentro di me qualcosa spingeva con prepotenza, artigliandomi lo stomaco.
Guardai in direzione di mia sorella, e vedendo i suoi aggressori l’odio che provavo per loro si trasformò in qualcosa di fisico, di concreto: si trasformò in... fame. Mandai un urlo spaventoso, cavernoso, in quella direzione. Sembrava provenire da un altro mondo, e di certo non era la mia voce. Era un sibilo agghiacciante che all’inizio mi spaventò a morte, ma dopo un attimo ebbi la consapevolezza della mia forza e quell’urlo non fece altro che caricarmi ancor più.
Il mondo in quell’istante si paralizzò.
I due aggressori si voltarono di scatto verso di me e sgranarono gli occhi nel vedermi (non ho idea di come fossi ridotto, ma dovevo incutere una certa soggezione a giudicare dal loro sguardo di terrore) e si pietrificarono. Se fossero stati in un altro contesto, sarebbero sembrati quasi comici in quella posizione. Mia sorella giaceva svenuta a terra, il volto una maschera di dolore.
Mi mossi verso di loro con un ghigno incontenibile che mi sfregiava il volto.
I due arretrarono. Uno inciampò nei suoi calzoni abbassati fino alle ginocchia e cadde pesantemente a terra mandando un sibilo di sorpresa e terrore. “Jack! Guarda i suoi occhi!” gridò al suo compare, il quale era rimasto in piedi e nel frattempo cercava di abbottonarsi i pantaloni.
Avanzai deciso e “Jack” dopo un attimo di esitazione mi venne incontro brandendo un bastone (probabilmente quello col quale mi aveva tramortito al nostro incontro). A un metro l’uno dall’altro lo calò su di me, ma era lentissimo, quasi esasperante. Tutto il mondo sembrava muoversi al rallentatore. Schivai il colpo con agilità innaturale e in un attimo gli fui dietro.
Lo artigliai alle spalle e con un balzo gli fui sopra. Ero attirato magneticamente dal suo odore, percepivo qualcosa di più penetrante del suo sudore, qualcosa di selvatico, sentivo la sua paura, sapeva che stava per morire.
Si dimenava e urlava sotto di me ma riuscii a contenerlo con facilità, grazie alla mia nuova forza. Con uno scatto veloce affondai i denti, queste nuove armi che avevo acquisito dopo la... metamorfosi, nella tenera carne del collo, che esplose in un liquido e denso calore.
Un sapore ferroso inondò la mia gola e il piacere che esso mi donava non era paragonabile a null’altro al mondo.
Sentivo il cuore di quell’uomo pulsare impazzito nelle mie orecchie, ma rapidamente rallentò e nel giro di pochi secondi era ridotto a un sordo battito. Non lo uccisi, lo lasciai così, incapace di muoversi e prossimo alla morte.
Mi girai verso l’altro uomo che ancora era a terra nella medesima posizione, con la bocca e gli occhi spalancati. Marciai verso di lui. Sentivo il sangue caldo di Jack colarmi dal mento sulla maglietta. Avevo ancora fame.
L’uomo annaspò frenetico nel fango che si stava ammorbidendo sempre più a causa della pioggia. Riuscì ad urlare ma non gli fu di molto aiuto.
Con un balzo gli fui addosso e di nuovo la mia bocca avvolse una gola umana e ne bevve il sangue. Alzai lo sguardo su Jack. Stava rantolando incosciente in una pozza nerastra.
Bevvi tutto il sangue possibile, lentamente, con l’uomo che si divincolava, tentando di liberarsi dalla mia morsa, colpendomi con deboli pugni. Aspettai ad ucciderlo. Staccai i le labbra dalla sua gola, sazio. Gli afferrai la testa con la mano e la voltai verso mia sorella, poi verso il suo amico Jack, poi lo costrinsi a guardarmi. I suoi occhi erano ridotti a due piccole fessure luccicanti in nere e profonde cavità. Stavano supplicando, chiedendo pietà. Risposi a quella richiesta con un sorriso divertito.
Ripresi a cibarmi di lui. Nello stesso istante in cui esalò l’ultimo respiro anche Jack morì.
Mi alzai in piedi frastornato, col cuore che batteva veloce e colmo di emozioni che tuttora non riuscirei a spiegare.
Camminai lentamente verso mia sorella e più mi avvicinavo a lei, più si faceva strada in me la consapevolezza che non fosse solo svenuta. Arrivato sopra di lei mi bloccai guardandola. Alla luce splendente della luna i miei sospetti si tramutarono in certezze. Il suo petto nudo era immobile sotto la pioggia battente. Avrei potuto udire il suo respiro ma dal suo corpo proveniva solo silenzio. Il suo odore. Era diverso da quello di tutte le persone... vive. Era uguale a quello dei suoi aggressori. Era morta.
Fu il momento più triste e doloroso della mia intera esistenza. Il cuore cominciò a galoppare e dalla disperazione non riuscii a trattenere un urlo feroce.
Da lontano, il chiasso ovattato della festa in paese sembrò bloccarsi di colpo, come se l’avessero udito e anche la pioggia sembrò smettere. Per un unico istante fui attirato da tutto quel silenzio. La luna era triste con il mio dolore e come per conferma il suo bagliore si spense lasciandomi vuoto in quel buio. La pioggia ricominciò e anche le risa e la musica della festa ripresero.
Tagliai per i campi correndo, e corsi veloce per tutta la notte. Lontano da tutto e da tutti. Non seppi più nulla di mia madre e di New Castle. Durante la notte correvo e di giorno mi riposavo. Viaggiai in nave, imbarcato di nascosto. Tre settimane dopo ero a Vienna e lì decisi di stabilirmi. Vi rimasi per alcuni anni. Il seguire degli eventi fece sì che dovessi però andarmene. Da allora ho vagato per tutta l’Europa, per lo più evitando le grandi città, seguendo l’odore pungente della disperazione, e della morte. Nella prima metà del secolo le persone morivano di peste e vaiolo. Quelli che non erano ammalati erano terrorizzati al pensiero di seguire i loro cari nella tomba. Arrivavo io e li liberavo dalle loro paure. Negli anni ’40 scoppiò la seconda guerra mondiale e non c’è bisogno che vi dica quanta disperazione si portasse con sé.
Al mio seguito c’è una lunga scia di sangue e morte. Penso sia inutile raccontare come sia proseguita la mia vita. Volete chiamarmi assassino? Mostro? Vampiro? Fate pure, non la reputo un’offesa. Io mi ritengo solo un anello della catena alimentare, e precisamente quello posto più in alto. Solo una precisazione prima di concludere queste pagine. Ho sentito, letto e visto storie ridicole che narrano di vampiri. Posso garantire che sono tutte sciocchezze. L’eterna giovinezza e l’immortalità, non hanno nulla di reale, prova ne è il fatto che sono steso in questo letto, intorpidito dal dolore e prossimo alla morte, e non a causa di un paletto che mi trafigga il cuore. Indubbiamente sono stato più fortunato di altri ad arrivare a questa età, e non escludo di essere stato aiutato dal mio particolare metabolismo, ma non c’è niente di magico in me, sono fatto di organi e tessuti proprio come qualunque altro essere vivente. E posso garantire che il contrario sarebbe una maledizione per me.
Leggende parlano di amuleti, di poteri infernali e altre sciocchezze.
Adoro la luce del sole. In merito ho avuto qualche problema da ragazzo ma ritengo sia stata una questione suggestiva piuttosto che fisica. Adoro lo spettacolo che mi offre il tramonto, e ancora più spettacolare per me è l’alba. Soffrirò la loro mancanza.
All’inizio, da ragazzo intendo, avevo una strana idea su Dio, per via della mia condizione, della sorpresa che Egli mi aveva riservato, poi col passare degli anni, crebbe in me la necessità di avvicinarmi a qualcosa di spirituale, che giustificasse il mio destino, per cui anche se non praticante, ero e sono tuttora credente, e ho anche paura dell’inferno, sebbene qualche film mi dipingerebbe come un emissario di Satana. Pertanto se qualcuno mi avesse puntato in faccia un crocefisso, la mia reazione sarebbe stata quella di inginocchiarmi in segno di rispetto. Tutto qui.
Sono invecchiato e non ho più la forza per cacciare come un tempo. Da troppo ormai mi nutro di topi e sono stanco. Stanco di non parlare con nessuno, stanco di questa solitudine e di quest’ombra. A causa della mia natura ho dovuto reprimere da sempre i miei sentimenti, le mie emozioni, ed è proprio questa apatia, che rende inutile la mia vita.

L’alito gelido della morte mi ha appena sfiorato. Sono i miei ultimi istanti su questa terra. Sento che le forze mi stanno lasciando. Ora smetto di scrivere. Prego solo che le anime delle mie vittime abbiano pietà di me e che mi accolgano fra loro, affinché dopo la morte, possa non rimanere più da solo.


autore                                    
Riccardo Duo