Folle, il battito, fuori dal tempo, oltre il tempo; il mistero di ciò che è causa e fine, l’armonia sofferta e nascosta si rivelava ora in un ritmo forsennato. Speranza e disperazione, coraggio e paura tutti gli opposti così dialetticamente inconciliabili ora erano fusi in un assurdo temporale e spaziale.
Ma continuava, correva senza sosta ne tregua, nel buio della notte un lampo oscuro, al di là dello spazio, scorrevano valli e montagne, pianure e colline foreste e brughiere, al suo passaggio un vento misterioso e impetuoso, unica testimonianza: sangue.
La pazzia, un’incredibile consapevolezza, l’eufonia dell’universo con il suo sincronico balletto, aveva superato un confine invalicabile, la differenza tra l’uomo e il divino e con fulgido silenzio infiniti mondi ed infinite epoche si erano aperti alla sua mente, e lui era in esse…Senza possibilità di tornare indietro, ora che il confine era stato trasceso, senza il riposante ristoro della morte, dono supremo che le divinità avevano fatto agli uomini e che lui aveva osato rifiutare.
Battiti, battiti, battiti, battiti, pause, silenzi. Veloci, sempre più confusi in suoni arcaici ed eterni, pause, silenzi. Il silenzio, negazione del suono, contrapposizione ad esso in una lotta di equilibri rotti e ritrovati. Condizione primaria della comprensione del suono, primordio generatore dell’intelligibilità di esso. Battiti, battiti, battiti, sconcertanti, spaventosi, bellissimi e senza tregua.
Sangue, gocce a segnare un cammino, una continuità. Una goccia dopo l’altra; lente, lontane, precise indicazioni, ostinate inseguitrici e compagne del fuggiasco, continue in un rivolo. Una goccia si affaccia, scorre lungo il braccio seguendone le forme, spostandosi con il vento che cambia, tracciando un percorso diverso dalle precedenti e dalle successive, arabesco disegnato dal caso, per il caso, arriva alla mano, le sue linee le fanno da letto e da guida, scivola verso una delle cinque sorelle, una frazione per gustarsi il salto e poi nel vuoto.
Ricordava, e come, la strada intrapresa, gli errori commessi. Ora cominciava a capire, aveva capito, ma era tardi; eppure una speranza restava prima che l’inferno che lui stesso aveva svegliato, l’immane potere che lui aveva cercato e liberato rifluisse su di lui, su di loro, dopo la breve quiete concessagli, come la risacca, messaggera dell’onda che verrà.
Ricordi, un caleidoscopio di sensazioni si affacciava alla sua mente stanca, sfinita dalla lotta e dalla ricerca; il calore di una giornata di sole, sorrisi, amici e nemici, il rosso del sangue versato, il fuoco, rabbia e desolazione. I ricordi correvano, più veloci di quanto lui stesso stesse facendo, più veloci di quanto riuscisse a cacciarli, ora doveva solo correre.

Era quasi arrivato, più in là nella notte si cominciava a vedere il profilo, lontano, ancora, ma reale e presente ai suoi occhi. Si fermò di colpo, riprese brevemente fiato, poteva sentire l’aria fredda riempirli i polmoni, ghiacciare il sudore, addirittura fermare il sangue, pizzicandogli la pelle con sottili ed invisibili aculei. L’aria era stranamente fredda, quasi maligna; anche l’odore che saturava il cielo era empio e malvagio, essenza di odio, dolore e morte. Inspirò, ora la sua speranza avrebbe fatto i conti con la realtà, sentì un brivido corrergli lungo tutta la schiena, non era freddo, e neanche paura, qualcosa di più sottile e terribile. Sgomento e ansia quali si provano quando al risveglio dai nostri più bei sogni la realtà li sconfigge, distrugge, annichilisce, mostrandoci sadicamente il nulla che siamo, e saremo. Eppure si può tornare a sperare…Si fece coraggio e proseguì camminando, temendo il momento del risveglio, scrutando alla ricerca di eventuali pericoli.
Il terreno intorno era bruciato, ridotto a deserto di terra e sabbia, poteva sentirne la sofferenza, la violenza e lo stupro che gli erano stati fatti, era ferito, arido, sterile. Nell’aria il fetido odore diventava sempre più forte, nauseabondo, stringeva i polmoni, mozzava il fiato, faceva girare la testa, prepotentemente cacciando via l’aria sana, insinuandosi nella testa, portando alla follia.
Sul terreno giacevano cadaveri in armatura, lasciati a decomporsi immersi nel loro stesso sangue. Si avvicinò a uno di essi. L’armatura, sporca della battaglia, aveva un foro all’altezza della terza e quarta costola, facendo più attenzione notò che lì il costato era rotto e…poteva immaginare: una nera mano lanciata contro l’armatura, passarla, arrivare alle costole, afferrarle e spezzarle, con lento sadismo strappare il cuore, portarlo via ancora palpitante mentre un altro corpo si accasciava pesantemente al suolo.La mano destra impugnava il moncone di una spada. Spezzata circa a metà della sua lunghezza, dal punto di rottura partiva una profonda crenatura, scendeva giù tremolante, ma netta e scura dividendosi poi simile a fluido in incrinature più sottili in ognuna delle quali si leggeva sua madre, la crenatura, e suo padre, l’urto; simile alla luce che passa in un prisma scomponendosi in arcobalenici colori ognuno diverso, ognuno luce primaria e prisma stesso. Allentò la presa delle dita sull’elsa, la forma della quale dava ragione ai suoi sospetti: non erano guerrieri comuni, erano dell’Ordine dei Protettori, guerrieri potenti, le cui armi e armature erano progettate per resistere a grandi poteri; qualcosa di terribile si era avventato su di loro, eppure lui era sicuro:l’aveva combattuto e sconfitto nel medesimo istante in cui si era combattuta la battaglia qui. Guardò il volto, fissò delle orbite vuote, si chiese chi avessero visto i suoi occhi prima di venir brutalmente strappati. La mandibola era spalancata, poteva quasi sentire in ciò che vedeva l’atroce urlo di orrore e dolore lanciato con l’ultimo soffio di vita rimastogli.
Attraversò quello che rimaneva della porta Nord, e il desolante spettacolo continuava, case distrutte, macerie ancora fumanti in un dedalo di vie senza più nome, senza più vita. Si vedevano cadaveri ovunque, rosicchiate con gusto da creature indefinibili, malvagie necrofile, cibantesi del pauroso dolore della morte… Continuava a cercare senza sapere dove stava andando, strada per strada, vicolo su vicolo, casa su casa in un continuo orribile deja-vu di morte.
Era nella piazza centrale, dove le tre vie principali si intrecciavano, al centro, leggermente rialzato, il tempio. La sua attenzione fu attirata dalla figura sdraiata sui gradini. Si avvicinò lentamente. Era pallida, non respirava, eppure non un’ombra di disperazione o paura sul suo volto, sembrava quasi sereno, pallido si, ma sereno. I suoi occhi erano chiusi, chiusi come ad assaporare un momento speciale che la vista avrebbe rovinato, chiusi come lui aveva tenuto i suoi tante volte, quando abbandonato tra le sue braccia si era fatto cullare dalla limpidezza della sua voce, dal suo profumo, perdendosi e confondendosi al tutto, cogliendo in un solo attimo tutto ciò che di bello gli dei crearono, inebriandosi di dolcezza sino al sonno. Riusciva ancora a sentirlo, il profumo del suo corpo, della sua pelle, nella sua purezza sopraffaceva il fetido e malvagio odore che si era impossessato del resto della città. Non uno strappo sul suo vestito, non una ferita sulla sua pelle, neanche le blasfeme creature che in quella città avevano imbandito un banchetto avevano osato sfiorarla, non abbastanza sacrileghe da violare il corpo di lei, nella quale tutta la sacrale grazia del creato era stata versata. Le accarezzò con leggerezza la gota, come era solito fare al risveglio quando lei, ancora addormentata, le era sdraiata affianco : la sua pelle era ancora soffice di spuma marina, dolce della brezza stessa della primavera; quante delle sue ferite più antiche e profonde erano state curate dal semplice tocco delle sue mani, ma ora lui non poteva portarla indietro. I suoi capelli avevano formato un morbido cuscino sul quale la sua testa riposava. Sembrava quasi essersi addormentata, immersa nel più bello e dolce dei sogni, attorno a lei era pace.

La prese in braccio, poggiando il suo capo sul suo petto, portandola come fa un padre con la figlia dormiente, e uscì dalla città dirigendosi ad est. Il chiarore della notte illuminava perle d’argento che scorrevano sul suo viso, in ognuna di esse il riflesso di un magnifico istante passato insieme, in ognuna di esse il senso ultimo della vita. Veleno scorreva nelle sue vene, il senso amaro che si prova nella consapevolezza della propria incapacità, la rabbia sorda e senza speranza di chi è separato dalla propria felicità da una sottilissima eppure insuperabile lastra, la sottile eppure incolmabile distanza tra amicizia e amore. Sul suo cuore un peso e una condanna, solo, poteva solo rassegnarsi, solo come mai prima, maledetto in quella condanna chiamata vita, una maledizione di solitudine su di lui, una maledizione dalla quale non vedeva possibilità di salvezza ora che tutto se ne era andato con lei. Il cuore gli faceva male, quale divinità abbietta e malvagia può permettere di gustare il paradiso destinandoci poi all’inferno? Eppure lui era là, cacciato dal paradiso per peccati che sperava perdonati, per i quali aveva già sofferto e cercato di porre rimedio.
I primi segni dell’aurora rischiaravano la notte quando arrivò su Amon Galad. Lì l’aveva incontrata la prima volta, reietto, temuto dal mondo, lei lo aveva visto, sapeva benissimo chi fosse, ma nei suoi occhi non si dipinse paura, lo fissò. In un solo istante le più immense profondità del mare e le più alte vastità del cielo gli si aprirono davanti, tremava, lui che aveva deriso la morte, che aveva fatto del terrore il suo fedele segugio, tremava. Lei gli sorrise, un sorriso buono, dolce e lui impazzì, o forse d’un tratto ritrovò la ragione. La posò sull’erba fresca, la fissò ancora un istante e si mise ad aspettare l’alba. Mentre il cielo passava dal grigio perlaceo dell’aurora al celeste del giorno le nubi vermiglie creavano corridoi di luce, sui ghiacci dei monti alla sua sinistra i sogni fuggiaschi creavano strani arcobaleni, il primo raggio di sole balenò, rapido e fugace, dritto e sicuro come freccia scagliata da arco verso il cuore nemico. Ma non finì la sua corsa, fu domato e catturato, divenne una teca limpida di cristallo, pura di diamante, splendente d’amore. Nessuna, neanche la più grande delle regine aveva un tale giaciglio per il suo ultimo sonno, solo la Madre dormiva in un letto di pura luce, ma la Madre capì ed accordò questo privilegio alla creatura che, favorita dal fato, aveva reso visibile al mondo le bellezze del creato. Lì la depose dopo che il giorno passò, un giorno in cui grande fu il lutto della terra e di quanti in essa hanno dimora, uniti nello stesso triste cordoglio; le creature le più diverse vennero a rendere omaggio alla splendente regina, gli uccelli tacquero, nell’aria risuonavano flebili come batter d’ali di farfalla solo i canti dei giorni antichi, con voce profonda li cantò e gli eroi e le eroine che ispirarono quei canti tornarono in vita per fugaci momenti nel suo dolore. L’ultimo bacio, delicato di purezza, dolce di rispetto, intenso di desiderio, ma triste, triste come eterna solitudine fu posato su quelle labbra di nettare e ambrosia ormai fredde, e la teca venne chiusa. Non gli era concesso restare lì, per sempre con lei, se ne riempì gli occhi e voltatosi si incamminò inseguendo il sole scomparso dietro l’orizzonte. Camminò a lungo ripensando a lei, passarono ore, e la terra iniziò a tremare, il potere da lui evocato stava per inghiottire il suo mondo quand’ecco, dalla direzione di Amon Galad una luce si alzò verso il cielo. Luce splendente e calda, il firmamento intero impallidì e si fermò a guardare, Galaen, regina delle costellazioni, si era rivelata nella sua pienezza, brillò di fulgida gloria.

Fu il tempo di un respiro, il tempo e lo spazio non ebbero più senso e seppe che ciò che era stato il suo mondo ora esisteva solo nel mito, e nel suo ricordo…

di Phayanaro