Affiora alla mente il mio passato, prende forma, rammento quelle sterminate terre nordiche, imbiancate dalla neve, lì ove il freddo gelido pervade libero, ove accarezza quelle bellissime acque tetre che velano nelle loro profondità misteri accaduti. Terre fertili nelle quali regnavano uomini sovrani, coraggiosi, chiamati “Vichinghi”, che esprimevano le loro idee, le loro usanze, liberi di vivere la propria vita. Terre ove dominavano in ogni battaglia, protetti dal culto di Odino, dio della guerra, associato all’intelligenza, alla sapienza, alla poesia e alla magia. Si espandevano sempre più invadendo i popoli confinanti. Uno dei più grandi popoli era il nostro, quello del grande Mikael. Ci spostavamo navigando con vascelli dalle grandi vele, ornate con dipinti e dorature, ed avevano prue scolpite nel legno, raffiguranti mostri marini, draghi, simboli di guerra che incutevano timore alla sola vista, erano chiamate Drakkar e con esse razziavamo ogni isola per diventare padroni assoluti di tutto, per poter poi essere ricordati come i più valorosi eroi di tutti tempi.
Ero un ragazzo incosciente, e non avevo timore di nulla, neanche di perdere la mia vita, avrei protetto la mia gente a costo di morire. Ricordo mio padre, che ad ogni battaglia mi raccomandava di non abbandonare il villaggio e proteggere la gente; io l’avrei protetta contro i cattivi, ma sarei stato mai, capace di farlo? Abitavamo in una gola detta darken nella quale il nostro villaggio era oscurato per la fitta radura dagli alberi, non poteva essere scoperta e neanche raggiunta perché eravamo circondati da strapiombi rocciosi, l’unico sentiero accessibile sboccava in un crepaccio. Per raggiungere l’uscita ci addentravamo in un cunicolo scavato nella roccia e ne uscivamo al di sotto di una cascata, che tramite un sentiero ci portava sulla sponda opposta della montagna.
Di nascosto seguivo mio padre nascondendomi dietro le radure, dietro quegli alberi enormi, assistendo ad ogni combattimento e vedevo tantissima gente perdere la vita, spargere tanto sangue, ma non riuscivo a capire il perché di tanta carneficina. Crescendo, mio padre mi spiegò che noi saremmo stati l’unico popolo a sopravvivere in quelle terre e se avessimo voluto continuare a prosperare mi avrei dovuto imparare a combattere anch’io. Mi allenavo duramente con mio padre e un suo amico fidato che si chiamava Aphazel, era uno stregone e chiromante, da una lunga barba bianca, la quale era magica, aveva il potere di strangolare l’avversario, era il più alto, aveva un viso molto particolare, tanto da far impaurire chiunque, vestiva sempre con dei manti lunghi neri, portava una corazza con borchie acuminate ed essa raffigurava un dragone con due teste; ci battevamo con spade ed asce e ci difendevamo con dei scudi a forma di croce che ad ogni punta era incastonato un diamante che rifletteva la luce solare infastidendo il nemico. Mi insegnai ad usare l’arco e le lance, diventai abilissimo con l’ascia, tanto da dover usare la scure di mio padre, era enorme e pesantissima, era tutta decorata, il suo manico raffigurava due serpenti incrociati con una sola testa, le due lame luccicavano al riflesso del sole. Crebbi e diventai forte, i capelli crescevano con me, diventarono lunghissimi, lisci come la seta e neri. Cominciai ad essere partecipe ad una di tantissime battaglie che ne sarebbero seguite. In uno scontro tra un popolo più numeroso e potente, vidi la fine di una lunghissima vita, una vita che sarebbe stata sicuramente ricordata per sempre da tutti e in tal modo da me stesso. Che avrebbe voluto vedere con i suoi occhi, seduto sul trono, quella vittoria che lui cercava. Sicuramente la vedrà in quell’altra vita ultraterrena. Vidi mio padre spegnersi davanti i miei occhi, lo uccisero senza pietà, quel giorno ci fu la nostra prima ritirata ed io promisi a me stesso di vendicarlo, di sterminare tutti coloro che avrebbero intralciato il mio cammino. Il tempo passò, e di battaglie ne successero sempre con buoni esiti, fui soprannominato “ grande scure”, perché ero l’unico ad avere una splendida ascia a doppia lama enorme e pesante. Ad ogni crepuscolo ci imbarcavamo per una nuova vittoria, una nuova conquista di un popolo che si sarebbe espanso al nostro fianco. Affondavano i lunghi remi in quei mari sconosciuti, vogando con tenacia, con quella sete di trionfo, accompagnati dal ritmo dei tamburi, dal suono dei corni e voci corali che si addentravano in quelle foreste riecheggiando il nostro arrivo. I primi raggi solari non riuscivano a penetrare la fitta nebbia, arrivavamo indisturbati, giganti che apparivano dal nulla uccidendo uomini, donne e bambini, senza pietà, le nostre asce, scuri, dardi, spade si infilzavano nei loro corpi, il loro sangue scorreva su quell’erba limpida, si mescolava con la brina del mattino, squartavamo, amputavamo teste, tutto ciò che era vivente, senza rancore, sensibilità, compassione, di tutti coloro che ostacolavano il nostro cammino. Quella nostra gente che perdeva la vita, moriva con orgoglio, con la fierezza di aver fatto ciò che loro sentivano di fare per il bene del nostro popolo e della loro anima. I loro corpi venivano raccolti da quell’ecatombe, erano posti su zattere di legno, fatti scivolare lungo le rive dei fiumi e, mentre la corrente li portava via, con frecce infuocate venivano colpiti per essere cremati, così le loro ceneri venivano raccolte dai grandi oceani dove le loro anime potessero trovare la vita eterna.
Il mio ritiro da quella vita lorda di sangue, avvenne all’improvviso, quando tutta la mia sete di potere raggiunse un ostacolo imbattibile, invalicabile, interdetto alla mia potenza, dalla mia ambizione, quando tutto quel sangue di cui il mio corpo era stato cosparso in tutti quegli anni, raggelò all’istante.
In quel pomeriggio, ove sfogavo la mia ira, la mia indignazione, la mia vulnerabilità, una speranza perseguita dai miei avi più cari, che avrebbero voluto che qualcuno portasse per sempre la nostra civiltà ad un culmine insormontabile, l’unica stirpe che avrebbe dominato quelle terre nordiche. Sarebbe stato prorpio così? Sarei riuscito, io, a portare ad una conclusione quei sogni, quelle speranze? Il tempo passa, ma non è sempre come noi vorremmo che fosse. Ora il cielo è sereno, domani sarà nuvoloso, dopodomani pioverà o nevicherà, domani l’altro tirerà vento, tutto cambia da un momento ad un altro, non siamo noi a decidere il futuro ma è una questione di eventi che ne scaturiscono le conseguenze. Qualcosa si nascondeva al di sotto di quel manto di rami secchi, non mi sarebbe sfuggito nessuno, l’avrei fatto fuori, senza pensarci, senza pietà, sarebbe stata un’altra anima condannata a marcire in quel posto, ma quando sollevai quei ramoscelli secchi, rabbrividii all’istante, non sapevo più cosa stesse accadendo dentro di me, mi cadde per la prima volta di mano la mia grande scure, i miei pensieri cessarono il loro cammino, mi pietrificai, il mio cuore di pietra si sgretolò, andò in mille frantumi, come se qualcuno mi avesse colpito, dritto nel buio sconosciuto della mia anima, come se all’improvviso una freccia luminosa mi avesse trafitto rischiarando quella lugubre anima, persi del tutto la forza, la ragione di continuare, mi sentii per la prima volta in colpa di tutto ciò che stavo commettendo, sentii un rimorso profondo. Chi era, chi poteva avere tale forza, chi avrebbe osato così tanto. Non riuscivo a spiegarmelo, eppure era così piccola, fragile, indifesa, era solo una piccola fanciulla, dai lunghi e lisci capelli castani, quei suoi occhi che mi fissavano spauriti, lucidi dalle lacrime, inconsapevoli di ciò che stava accadendo attorno.     [ avanti » ]

di Cagliostro