Buio. Solo buio. Odore asciutto, pelle calda, respiri lenti, profondi si susseguono lasciando lunghe pause. Occhi che si schiudono, lentamente, come se fosse la prima volta, incontrano il buio. Nella testa il suono assordante del silenzio, squarcia la pace dei sensi, ombre indistinte, sagome, una mano pesante, stanca, con un movimento innaturale viene tesa verso il nulla, afferra qualcosa di freddo, che sale in un rapido brivido, per poi sparire. Click. Suono indistinto di bottoni pigiati, la luce blu del monitor si accende: 07:00. E’ mattina. Il rumore del silenzio viene interrotto, dal primo pensiero: “Perché?”. Null’altro, solo odori, suoni sfuocati, immagini senza senso, come apparentemente quella domanda. Perché..
Enrico si alzò, trascinandosi fuori dalla stanza come un ombra nel silenzio di quella mattina, aprì la porta del cesso. La maniglia era fredda come il pavimento sui suoi piedi scalzi, la abbassò e varcò la soglia. Una figura si palesa proprio di fronte a lui. E’ un ragazzo che lo guarda con occhi vuoti come fuochi spenti, la faccia di chi proprio non ha niente da dirti o da darti, neri capelli spettinati, la barba, rada e incolta. Il ragazzo lo scruta, oscillando lentamente il capo: destra, sinistra, destra, sinistra. E’ la sua immagine allo specchio. Anche quella mattina era iniziata e con essa l’assillo di mille pensieri che per quell’istante, per quei brevi attimi, punto d’incontro tra sogno e realtà non si erano ancora materializzati nella sua mente. Lo scivoloso scrosciare dell’acqua dal rubinetto aveva quasi un effetto ipnotico sul ragazzo. Adorava quel momento, quando le mani aride e calde dopo un lungo riposo incontravano la consistenza liquida e umida dell’acqua, che come un velo di seta le avvolgevano in una fresca e fluida carezza. Splash. L’acqua incontra il viso, destandolo dal sonno, trascinandolo via da quel dolce momento, portandolo sui terreni sterrati della consapevolezza, dando un seguito a quella che era stata la sua prima domanda, quella che era alla base di tutte le altre. “Perché? Perché devo alzarmi? Perché adesso devo entrare a contatto con il mondo? Un mondo in cui mi sento intruso ed invisibile? Perché…” La voce del padre che tuonava impartendo ordini in un convulso conato di suoni senza senso, interruppe la linea dei suoi pensieri: “Enrico maledizione, ogni mattina la stessa storia, muoviti bastardo, è tardi…” Le parole iniziarono a perdere di significato, erano solo rumore, e lui non sopportava il rumore. “Si, sii, un attimo!” Urlò pensando aveva la gola in fiamme e come se non bastasse era maledettamente tardi. Si infilò i blue-jeans, erano semi distrutti ma ci era affezionato, continuando a frugare nell’armadio con una mano e abbottonando i pantaloni con l’altra. Movimenti rapidi, silenziosi, afferra la cartella. Un flash: 4a elementare, la stessa cartella in spalla il primo giorno di scuola e gli amici che glie la invidiavano…Torna al presente, guarda quel cimelio, strappato, segnato dal tempo e dalle troppe bruciature..la mette sulle spalle ed esce di casa, corre giù per le scale, non si volta, mentre i polmoni si aprono e vogliono urlare, il portone è spalancato, corre corre, se lo lascia alle spalle e..STOP. Era fuori di casa. L’aria era particolarmente fresca quella mattina, quasi pungente, e tutto sembrava perfetto: Le strade desolate, la luce del mattino, e quel sole flebile che aveva abbandonato l’inverno, ma che non si decideva ancora a riscaldare le giornate. Salutò Vichy con un cenno del capo, mostrandole un sorriso. Erano 2 anni che ormai si incrociavano ogni mattina, perennemente in ritardo e compivano insieme quel breve tratto che gli portava alla fermata dell’autobus. Lui dormiva in piedi, e lei peggio di lui. “Buon giooorno” mugolò Vichy. “Buon giorno!” Rispose lui sorridendo. Era come rivedere un vecchio nastro, ogni mattina, e ormai quello era più un rituale che una vera e propria conversazione. Quel giorno non dissero nulla, si diressero alla fermata ognuno con i propri pensieri per la testa, come se il loro fosse un tacito accordo. Enrico aveva iniziato nuovamente a pensare a quanto quella giornata sarebbe stata identica alle altre, fredda e vuota. Ogni mattina si svegliava con i suoi perché nella testa e se li trascinava per tutto l’arco della giornata, e la sue giornate erano diventate così uguali l’una dall’altra da non riuscire più a distinguerle. L’inevitabilità del tempo cambiava il nome di frammenti della sua vita ogni 24 ore e lui, non poteva farci nulla. Anche oggi avrebbe preso quel pullman, col suo lettore mp3 a palla per non sentire le urla della gente che odiava. No, non perché fosse sociopatico, ma solo perché quella gente era ai suoi occhi tutto ciò che di più frivolo possa esistere. Quei ragazzini erano rozzi, e non solo per il loro modo primitivo di comunicare, o di muoversi, erano ruvidi dentro..esattamente cosa volesse dire non sapeva spiegarlo, anche se il suo migliore amico era riuscito a descrivere la sensazione che in qualche modo rappresentava quella gente: “Sono come una pietra pomice che viene sfregata con violenza sul ruvido asfalto”. Una frase che non aveva alcun senso per chiunque, probabilmente neanche per voi, però quell’immagine descriveva automaticamente ciò che provava. Dopo aver percorso 33 Km sarebbe arrivato a scuola, dove si sarebbe seduto per 6 ore spegnendo totalmente il cervello. Non aveva voglia di sentire, era stanco di dover sorbire quelle inutili nozioni ogni dannato giorno, ma come ben sapeva era inevitabile, e quindi bisognava rassegnarsi. Avrebbe finto di essere una persona che non è davanti a quella gente che non lo avrebbe mai capito. Lui sapeva di essere diverso, “ne meglio ne peggio” diceva sempre, “solo diverso” era così punto e basta e aveva imparato ad accettarlo.

di Enrico Eugeni