Indossi ancora la vestaglia di mia sorella. L'ho tirata fuori dalla sua camera chiusa in cui non entravo da tempo, dal vecchio armadio impolverato e pieno di buchi di tarli sul legno decrepito. Ieri notte ti ci sei ricoperta la pelle, per concedere al tuo corpo una sottile tregua dal freddo sopraggiunto a ricordarci che l'amore dura troppo poco per sconfiggere il gelo che abbiamo dentro. Hai dormito con quella vestaglia sporca, che adesso sporca anche di te. E di me. A mia sorella non serve più, lei ha smesso d'indossare le sue ossa ormai e adesso tu me la ricordi comera, un fantasma sperduto con gli occhi pieni d'assenze incolmabili.
La tavoletta del cesso abbassata e tu ci sei seduta sopra. Il bagno piccolo, le pareti strette, i vetri offuscati. Ti guardo. Le tue natiche sode tremano e tu stringi lo stomaco cercando di abbracciare te stessa e tenerti al riparo. Perchè siamo entrati insieme in bagno? Noi non ci conosciamo. Ma stanotte, in quel deserto di coperte, stato disperatamente bello. Forse stiamo solo cercando un modo di stare ancora vicini, cercando di far finta che non sia così, per non ferirci.
Hai le cosce aperte, con una sofferenza immensa tra le gambe che si staglia su fino al cuore; ciò che ti ha resa così sacra ai miei occhi, su quel marciapiede, te ne stavi immobile a vegliare il nulla che c'inghiotte nelle strade. Sbraniamoci noi - credo d'averti detto - prima che siano gli altri a farlo. E tutto quel piacere nero che regali a sconosciuti come me, perchè ti aiutino a trascinare le tue pene di notte in notte, nelle ore prima che faccia luce, ti ha resa sacra alle mie mani che da tempo non si uniscono più nella speranza di una preghiera. Sono scivolate sulle tue dune di pelle perchè sembrava l'unica cosa buona e giusta nell'indifferenza della luna.
I piedi scalzi sulla ceramica grigia e fredda. Tremi. Ancora. Il tuo profumo è forte. Il sapore del sonno che a volte arriva come la carezza di una madre ancora presente. I tuoi occhi sono stanchi. Fumi una sigaretta svogliata che trema irrequieta tra le tue dita, l'hai accesa un secondo dopo aver lavato denti troppo candidi per assomigliarti, per essere i tuoi, per non ricordarti com'eri pulita un tempo che adesso fingi di non ricordare. E sai che non basta un dentifricio da due soldi per lavarti l'anima e sentirti nuova ogni giorno.
Dentro questo cesso le pareti sono troppo bianche e il mio disagio sembra essere il tuo, le mattonelle sembrano neve fresca appena scesa dal cielo a creare un fottuto paradiso in cui specchiare le nostre anime, e capire quanto siano diventate lerce. E odiare, e odiarsi, e desiderare toccare il fondo dopo essersi amati e non riemergere mai più. Desiderando distruzione romantica e fatale.
Lasci che la cenere cada per terra. E poi la sigaretta, fumata così a fondo da bruciarti le dita, rotola su se stessa. Ci metti un piede sopra. Nessuna reazione. Insensibilità. Un intorpidimento che sa di rinuncia, la tua resa bianca. Hai crateri nelle nocche delle dita così profondi da infilarci tutto il buio della tua esistenza.
Dio! Quanto sei pura. Quanto sei fragile. Quanto bella! Mi vergogno di aver pensato anche solo un istante, stronzo impertinente, di poter essere in grado di salvarti con la passione puttana di una sola notte umida, seppur così rara, così nostra! Tu non vuoi quella salvezza, ti fa troppo male anche solo pensarla, la disprezzi e la disconosci, ormai, l'inferno dove vaghi sola la cosa che più dogni altra per te assomiglia ad una casa. E la tua culla che cigola, la mia amante più fedele e spietata. Nemmeno io la voglio più quella salvezza, è come l'acqua pulita di quel cesso dentro il quale stai pisciando e piscerò anchio. Ed ha il volto incolpevole e lucente di quei fottuti Angeli del cielo che sembrano sputarci addosso rinfacciandoci ogni nostro peccato quotidiano, la nostra sconfitta, la nostra miseria. Quanto vorrei vederli con un cranio rasato proprio come il mio, senza quei fottuti boccoli doro, con il vomito alla bocca, una dozzina di buchi alle braccia e l'inferno dentro.
Ti guardo. E adesso anche tu mi guardi. Ci siamo solo noi due qui dentro stretti e nessun motivo per sfuggirci uno all'altra. Mi allunghi un'altra serie di pillole colorate che da ieri continuiamo a mandare giù per l'esofago. Non ti ho chiesto cosa fossero e non ho intenzione di farlo adesso. Perchè tu sei languida e la tua carne è attraente, il tuo respiro esangue, le tue labbra abili, il tuo seno piccolo, le mani delicate ed esperte. Le domande, quelle, si sono ritirate di fronte alle verità incise nei nostri occhi. - Manda giù le pillole - sussurri coraggio mi esorti, con gesti veloci delle mani - non aver paura di perderti. Il mio stomaco si ribella a questo risveglio fatto di pillole colorate, caffè freddo acido, sigarette fumate al chiuso. Invece tu chiudi gli occhi e ti rilassi del tutto poggiando la tua schiena fragile allo sciacquone, come se avessi domato un'astinenza che durava da ore intere. Forse adesso sei più calda dentro ma questo risveglio ha in se un infinito desiderio di non esserci. Svegliarsi e desiderare i sogni persi.
- Voglio musica - ordini dolcemente.
Vado nella camera che preserva intatti i nostri odori di sudore e liquidi caldi e cicche di sigarette spente male, strappo la presa dello stereo dal muro.
Per ore intere abbiamo ascoltato Precious in repeat, questa notte, Dave ha soffiato la sua voce calda dentro le nostre vene strette. Dici che i Depeche ti fanno sentire come se ci fosse qualcuno al mondo in grado di capirti, che ti fanno sentire meno sola, preziosa nell'empatia, e qualsiasi tristezza diventa più soffice se ti chiudi in una loro canzone. Vorresti i Depeche Mode sotto le arcate della chiesa per il tuo funerale e rose viola con le spine aguzze sulla tua lapide.
- Tingimi i capelli di viola ordini dolcemente. Forse stai ripensando alle tue rose perlate su lapidi fredde e marmoree. Mentre io penso ai tuoi denti come spine a penetrare la mia carne. Ti tingerei l'anima e ti leccherei il cuore e mangerei vermi dai tuoi pedi se solo tu me lo chiedessi.
Sei davanti allo specchio incrostato di schizzi di sapone. Ti guardi con occhi brillanti e cattivi. Scicchi la cenere dentro il lavandino. Forse ti ami o forse provi solo odio per te stessa e la tua stanca passione suicida sarebbe comunque la stessa.
Il sole oggi s'è dimenticato di sorgere o i palazzi l'hanno tenuto sotto i loro corpi di cemento, oscurandolo. Poche nuvole di luce filtrano dai vetri opachi e la penombra è libera di danzare col fumo nell'aria. Miscelo il colore in un bicchiere di vetro e prego di non sbagliare, cerco d'accendere la luce per assicurami della consistenza dell'impasto.
- No! - Urli, e torni a guardarti.
Immagino quei tuoi capelli selvatici divenire fili viola di morbida seta. Vorrei fumare ma preferisco questa mia trasparenza quasi immobile, senza suono, senza peso. Vicino a te che sei un diamante luciferino dai riflessi argentati chiusa dentro un cesso a doppia mandata. Mia, nella misura che deciderai d'esserla e che so non mi basterà.
Precious in repeat. Precious in repeat. Precious in repeat.
Spalmo la crema colorata per tutta la lunghezza dei tuoi capelli, non ho messo guanti sterili plastificati a soffocare mani affamate, voglio toccarti. Velocemente la pelle assorbe il colore, i pori se ne impregnano, le unghie ci affogano, scivolando sui tuoi capelli bagnati e pesanti. Anche il tuo viso è sporco del colore che gocciola dal mento sul tuo petto, la vestaglia ti si appiccica al seno e i tuoi capezzoli tesi sembrano chiedere attenzioni da mani abili. Non stacchi mai lo sguardo da te stessa ma sembri grata di queste carezze precise e servili. Precious terminata lasciando solo silenzio.
- Dammi urla - chiedi - urla, urla, urla, urla, soltanto urla.
Chiedo a Trent Reznor d'accontentarti e lui inizia a battere pesante come un martello di ferro sull'acciaio. Cerco d'imprigionare i tuoi capelli dentro mollette con denti di plastica aguzzi per dargli un ordine che non gli appartiene. Ma tu scuoti la testa liberandoli dalla presa. Ci riprovo. Ti dimeni ancora seguendo i Nine inch nails nella loro foga malata. Scuoti la testa come se avessi quegli androgeni umani sporchi di fango davanti a te su un palco. Le gocce di colore schizzano le pareti, lo specchio, il pavimento, il mio petto nudo dove sto comprimendo un respiro silenzioso che assomiglia ad un urlo mozzato. Spegni la sigaretta sullo specchio disegnando una grande X di cenere nera. Il tuo ghigno follia senza controllo, assalto all'arma bianca fuori dalla trincea dove trovi riparo. Ci sono io di fronte a te, uccidimi, sbranami prima che siano altri a leccarmi come luridi porci. Fa che io sia la tua opera umana, un monumento vivo alla tua brama famelica, la tua unica e ultima vittoria, il portatore sano di una violenza perfetta.
Passi i palmi delle mani sui capelli lerci, poi mi carezzi il volto sporcandolo come quello di un bambino spezzato. Tieni le mie braccia ferme. Uno alla volta ci passi sopra una spugna impregnata d'acqua calda per ammorbidire la pelle ruvida e gelida e bianca.
- Cos' la lama scivoler più dolcemente - dici, cercando di rassicurarmi sulle capacità nascoste delle tue dolcezze deviate.
Scarti la lama e mi chiedi di guardarti negli occhi senza mai guardare giù. Forse hai paura che io possa cadere. So che più mi porterai in alto più terribile sar la caduta. Inizi a parlarmi senza fermarti mai, incanti i miei occhi con movimenti di labbra sottili e meccanica ripeti:
- Adoro i tuoi occhi. Adoro le tue mani. Adoro le tue braccia. Adoro i tuoi polsi e intanto tagli, e tagli, e tagli senza guardare ciò che fai. Trattengo il dolore decapitandolo nel mio petto.
- Adoro le tue dita. Adoro il tuo viso. Adoro le tue ferite. Adoro il tuo cazzo e intanto tagli ancora, e ancora, e ancora senza logica giochi con le mie braccia da Cristo del cazzo e il sangue si mischia al colore viola come cera di candela calda e liquida che brucia.
Stai amando me e Trent Reznor e riesci a tenerci entrambi in quel tuo cuore rotto e piccolo come questo cesso buio. Il disagio del bianco candore svanito, violentato da schizzi di colore, sangue, cenere, merda, saliva, liquido vaginale, sputi di tristezza putrefatta e spermi infecondi di rassegnazione.
Lasci andare la lametta al pavimento e ti togli la vestaglia di dosso. Nuda, chiedi abbracci in dono che stringano fianchi, che sfiorino cosce, che sporchino seni eccitandoli. Che imprimano al freddo della tua pelle il rosso calore del sangue e delle mie voglie. Ti stringo e tu mi baci ad occhi aperti, mi guardi mentre assaggi il sapore speziato dei miei occhi neri e lucidi. Un amore malformato, un piccolo mostriciattolo spastico che c'inghiottirà una volta liberatosi dal nostro stomaco. Un cesso di stomaco materno.
Stiamo cercando la luce? Mio amore puoi stringere attorno ai nostri colli il cordone ombelicale per impiccarci qui e penzolare per sempre vicini, al buio, al sicuro. Dentro un cesso di stomaco materno. Mangerei vermi dai tuoi piedi se solo me lo chiedessi.
Ti appoggi alle mie spalle dalle ossa sporgenti e mi schiacci sotto il peso del mio corpo e dei tuoi desideri. Tu preghi, supplichi e ordini nello stesso identico modo.
Cado, ma il mio sguardo non si stacca mai dal volto del mio personale Dio eccitato e disilluso. Allarghi le cosce e speri che io sia bravo come lo sono stato stanotte al tuo cospetto. Gemiti umidi e calore tra le tue cosce aperte. Scivolo come olio sull'acqua della tua pelle liscia e succhio le labbra del sesso sentendo un sapore dolciastro. Le succhio e tengo tra i denti la consistenza morbida e delicata di quelle labbra bagnate. Infilo la lingua più a fondo possibile per colmarti di gioia repressa. Le tue unghie scavano il mio cranio rasato e sfregiano la schiena esposta a sevizia malinconica. E sento la pelle rigonfiarsi, dove passi con il tuo ardore e i tuoi sospiri, in linee rosse e bruciore che urleranno il tuo nome a lungo nel mio letto.
Ti lecco e ti guardo, statua con crepe aperte dal tempo. Ti lecco come se fosse possibile disinfettare le tue ferite, cicatrizzarle, guarirle. Ti lecco, mentre tu con gli occhi cerchi il cielo in un soffitto troppo basso. Ti lecco e bevo i tuoi orgasmi. Ti lecco e mangio la placenta dalla quale sbocciamo rinati. Preziosi. Ti lecco senza prendere respiro e mastico petali. Sporcando di colore le tue cosce che strisciano contro le mie guance stringendosi, ti lecco e ingoierei i chiodi arrugginiti che hai ai piedi se solo tu me lo chiedessi.
Prima di svanire del tutto urli - ti amo - e i tuoi pianti sinceri mi stuprano. Siamo solo fantasmi con gli occhi pieni d'assenze incolmabili dentro un cesso di grembo materno sventrato.
Con cordoni ombelicali di cuoio stretti al collo, penzoliamo una di fianco all'altro.
La mia lingua avida cerca il veleno che nascondi dentro e il mio collo aspetta morsi che decapitano. Raccoglimi da terra e indossami. Copri ancora con quella vestaglia sporca, di me e di te, le macerie dei nostri sogni distrutti.

di Pietro Presti
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