Il corpo teso, le braccia alzate, il volto stremato sul petto, le gambe livide. Il vento soffiava lieve, portandole i capelli all’indietro. Un rivolo di sangue ad un lato della bocca, quasi a colorarle le labbra. Gli occhi spenti. Se non fosse stato per l’immobilità in cui era imprigionata sarebbe caduta in terra. La sua mente non era nemmeno più lì, mentre lui la guardava inespressivo. Il cielo sembrava piangere, per loro due, per entrambi, legati ad un solo destino.

Odio. Che senso ha questa parola? Cosa nasconde in se, quali oscuri segreti occultati, quali indizi? Verginità perduta di una mente nata solo per quello, che protende a quello, quasi fosse la sua dimensione reale, quasi fosse impossibile non odiare. Eppur non ci riusciva in quel momento: come poter dimenticare tutti quei baci, le carezze, le parole che come miele lui aveva posato sulle sue orecchie, appena bisbigliate, dette di nascosto, quasi per tener all’oscuro il resto del mondo. In fondo le aveva dato ciò che lei aveva sempre desiderato, ogni sfumatura, ogni sospiro, tutto al momento giusto. Anche le lacrime. Non ci può esser amore senza sofferenza. Ogni lacrima di lei era stato anche un rivolo argentato sul volto di lui, come stelle cadenti, come la pioggia in quella notte senza luna.

Angel osservava quel corpo semi nudo posto di fronte a lui come se non lo avesse mai guardato prima, come se non l’avesse mai sfiorato in quei lunghi giorni passati assieme. Come se non l’avesse mai baciato. Le loro notti d’amore sembravano così lontane in quel momento. Lui rimaneva lì, immobile, seduto sul cornicione di quel tetto al duecento trentaseiesimo piano d’un grattacielo, in pieno centro. I suoi occhi neri la scrutavano impassibili, sorvolando quasi con leggerezza su quelle forme che ormai conosceva a menadito, sul seno pieno, sul ventre piatto o sulle gambe sode e sulla pelle bianca. Erano gli occhi di lei che cercavano, quegli occhi castani in cui per minuti interi si era specchiato senza dir una parola. La prima volta era stata sei mesi prima. Lui aveva bussato alla sua porta, alle nove di mattina, quando lei si sarebbe dovuta trovare a lavoro. Poi era rimasto lì, ad aspettare, sicuro di trovar in quella casa ciò per cui tanta strada aveva percorso. Pochi minuti, solo pochi minuti. Quando lei lo aveva visto, aprendogli, proprio lì, sulla soglia del suo appartamento, era rimasta per un attimo immobile, trattenendo il respiro. Gli occhi le si erano spalancati, eppur un istante dopo era tornata normale, comportandosi come se quella visita fosse stata qualcosa di consueto o di atteso. Se qualcun altro l’avesse vista in quel momento avrebbe potuto affermare con sicurezza che non c’era la minima traccia di sorpresa sul suo volto. Ma proprio nel primo istante, proprio quando i loro occhi si erano incrociati, qualcosa di nuovo si era insinuato sotto la sua pelle, e anche lui aveva provato la medesima sensazione. Nessuno, per più di un minuto, aveva detto neanche una parola. Ora invece erano lì, a pochi passi l’uno dall’altra, eppur tanto distanti. Angel si mosse, le si accostò, portò le proprie labbra all’orecchio destro di lei: “La mia Dukessa…”, disse piano, facendo scivolar il proprio fiato tra le labbra, schioccando la lingua, “… la mia povera Dukessa”. Poi uno schiaffo, in pieno viso, il cui eco si protrasse a lungo, prima di esser ricoperto da un lontano tuonare, annunciando un temporale che sembrava farsi sempre più minaccioso. Quel gesto improvviso sembrò rianimarla: fu come se le parole di pochi istanti prima avessero preso la spinta necessaria per essere comprese. Dukessa, perché la chiamava così? Ah, sì, è vero, era il nome che lui le aveva dato, nell’intimità di ogni notte passata assieme, nella dolcezza d’ogni risveglio tra le sue braccia. Ma perché Dukessa? La mente ritornò al passato. C’erano solo lei e Angel, distesi su di un letto dalle lenzuola nere in seta. La luce delle candele sfumava, la musica si perdeva tra sospiri e sussurri. Lei tra le braccia del suo principe nero giunto da chissà dove. “Dukessa”, le disse d’un tratto. Poi il suo sguardo passò dagli occhi di lei alla fiamma del camino acceso. Era così, ogni volta che cercava di ricordar il proprio passato, o quando frammenti di memoria tornavano alla luce, lui cominciava a fissar il vuoto, come se nel nulla pensasse di poter trovare quel che cercava. Ma la memoria non tornava, Angel continuava a non ricordare nulla. Quella notte sembrò che la parola Dukessa fosse affiorata alle sue labbra ma non per essere rivolta a lei. “Perché mi hai chiamata così?”, gli chiese. Lui riportò lo sguardo sul suo volto, notando una sottile linea di dispiacere disegnarle le labbra. Si affrettò a sorridere: ”Per il colore della tua pelle, per il suo profumo delicato, per la dolcezza del suo sapore. Per i lineamenti candidi e per le sfumature che dipingono il tuo volto… Dukessa…”. Lei non capì, ma lasciò perdere. Lo osservò soltanto mentre egli tornava ad abbandonare il proprio sguardo al vuoto. Pochi minuti dopo si era già addormentata. Non poté quindi veder il volto di Angel bagnarsi di sale, non poté udir le parole: “Mi dispiace”, sottoforma di fiato, romper la calma su di loro.

La pioggia bagnava le ferite profonde sul suo petto, la pelle lacerata bruciava graffiata dal vento, il respiro cominciava a farsi pesante. Teneva la bocca semi aperta ormai, temeva di star per soffocare. Tossiva, quando il sangue le scivolava in gola. Provò ad alzar lo sguardo, rivide ancora una volta il suo angelo in piedi di fronte a lei, impassibile. Si stupì di poter provare un dolore tanto sottile e un amore ugualmente intenso. La frusta era stata abbandonata, poco più in là. Guardò meglio, ma quel che le stava attorno non diveniva più nitido, né più felice. Le lacrime ormai erano scese, come un velo, mimetizzandosi con la pioggia. Desiderava veder un ultima volta i suoi occhi. Sapeva di stare per morire, ma che importanza aveva se lo faceva per mano della stessa persona che l’aveva riportata alla vita? Chiuse gli occhi. Ad un tratto non c’era più quel tetto grigio, né le nuvole violacee sulla sua testa. Perse i sensi.     [ avanti » ]

di Eric F.T. Dron